Marco Cassarà
Puoi parlarmi un po’ di te?
Sto ascoltando Outside di David Bowie, un disco che non mi stanca mai. È un concept-album molto complesso che esaspera l’idea di concettualità artistica attraverso un thriller story su una fantomatica corrente di omicidi artistici.
Il personaggio principale è Nathan Adler, un detective specializzato in critica d’arte coinvolto nelle indagini di una brutale installazione; le sue elucubrazioni sul caso lo trasportano in una profonda introspezione esistenziale e quello che scopre è cosi intricato che finisce realmente per chiedersi se quella sia arte o meno.
Mi interesso di cose molto più allegre e vivaci, ma tuttavia mi sento un po’ come questo detective, nel senso che sono seriamente coinvolto e trasportato dalla mia ricerca.
Come e quando ti sei avvicinato/a all’arte?
Sogno spesso in maniera molto energica e dettagliata i miei giocattoli di infanzia.
Ricordo molto bene le suggestioni e i dialoghi interiori che mi suscitavano, li scrutavo intensamente come faccio con i miei lavori.
Ho cominciato molto presto a farmi domande e a rispondermi in maniera creativa.
Quali sono gli artisti cui guardi? E perchè?
Cai Guo Qiang, Anselm Kiefer, Matthew Barney.
Tre artisti che hanno guardato oltre il velo. Ho visto dal vivo diversi lavori di Kiefer, sono memorie materializzate che appaiono cosi potenti da farti sentire come uno dei sui ready-made all’interno dell’opera.
Cai Guo Qiang sa giocare bene col fuoco, ha spinto molto in là e con grazia il linguaggio visivo.
Matthew Barney potrebbe essere un’incarnazione del dio Efesto. È in ogni caso un dio di artista.
Puoi parlarmi della tua ricerca artistica?
L’intento della mia ricerca è molto visionario, simile a quello dei filosofi alchimisti, che attraverso le suggestioni dei simboli e le trasmutazioni dei metalli sperimentavano dei significativi processi di trasformazione interiore – lavorando in un certo senso in maniera attiva col proprio inconscio – e quindi realizzando quello che la psicologia analitica chiama Processo di Individualizzazione.
Mi sono sempre approcciato al mio immaginario come se fosse una miniera di simboli da scoprire, elaborare ed integrare.
A spingermi è sempre stata la pulsione di trasformare la mia esperienza estetica in qualcosa che amplifica il mio dialogo interiore; in un certo senso, almeno per me, i miei lavori hanno la stessa funzione spirituale che potrebbe avere un’immagine sacra, mi slanciano verso qualcosa di divino e intrinseco. Sono molto felice di quello che ho realizzato.
La mia ricerca mi ha portato su vette alte.
Qual è il materiale preferito? E perchè?
I pigmenti puri, e ovviamente i colori ad olio, sono vivi e ogni colore ha una grande storia.
C’è una gamma cosi vasta di colori con nomi cosi poetici che generare una tavolozza somiglia quasi a fare una pozione magica.
Tengo un ricettario con gli appunti di tutti i passaggi cromatici di ogni lavoro.
Quanto è importante il processo?
Quando la mia concezione cromatica è maturata insieme ai miei processi creativi sono entrato in una specie di crisi; lavoravo a un piccolo libro d’artista che si intitola Solar Plexus, un’immersione in un microcosmo fatto da circa duecento monocromi scuri – ritmati in un piccolo rettangolo di quindici per venti centimetri. Un casino di spazio là dentro!
Dopo quello ho cominciato a sentire superfluo ogni tentativo di rappresentazione, ed è stato fisiologico il distacco dal figurativo; il mio modo di intendere la luce e il colore rigettavano ogni soggetto e necessitavano una forma pura che li vestisse.
Per caso mi sono imbattuto in un camioncino che trasportava un albero di albicocco fatto a pezzi, ho intravisto delle forme potenti con dei tagli che si prestavano benissimo alla pittura, era quello che cercavo. Cosi mi sono lanciato all’inseguimento e ho convinto l’autista a vendermi l’albero. È uscita fuori una composizione scultorea da cui affiorano dei monocromi spaziali, un’opera piena di tensioni, modellata dalla forza della natura e dai suoi straordinari processi creativi, e dalla forza brutale e istintiva di chi ha segato l’albero; mi sentivo solo una sorta di tramite che doveva solo fare le scelte giuste.
Quell’opera ha poi determinato ogni cosa nei miei processi creativi, ho come preso a lavorare su corpi che dovevano essere sublimati, tra cui una lunga serie di lavori su cuoio in forma grezza, e ho anche smesso di mangiare carne!
Quest’anno ho avuto l’esigenza di tornare a dipingere. È stato molto difficile rapportarsi alla neutralità della tela e soprattutto non riuscivo a prescindere la sua forma geometrica, ma i lavori passati mi hanno portato a un approccio tempestoso gestito con pazienza.
Disegno con delle smerigliatrici elettriche, i segni sono ricavati per sottrazione; comincio sempre con un’idea cromatica, porto avanti i fondi come se coltivassi la terra aspettando che sbocci qualcosa – tento di pensare il meno possibile e al momento giusto disegno facendo avvenire tutto in un istante come in getto ispirato, certe volte ci riesco – direi a colpi di Karate – e il disegno è perfetto, altre invece devo lanciarmi sull’opera come in una rissa da strada, e a volte (dopo giorni di preziose velature) mi capita di strappare la tela…
Ricordo il primo cuoio a cui ho lavorato, è rimasto appeso e vuoto per mesi… finalmente mi cadono gli occhi sulla smerigliatrice, sferro un colpo alla cieca ed esce un segno che sembra un ologramma.
A cosa stai lavorando adesso?
Lavoro da qualche anno a un trittico di libri d’artista chiamato I Libri della Trasmigrazione.
Ognuno porta un nome legato agli stati d’Illuminazione secondo varie tradizioni trascendentali: Satori, Samadhi, e Nirvana.
I titoli sono giusto delle suggestioni che danno un’unica direzione alle diverse forme di astrazione che stanno affiorando in ogni libro, e che sto sperimentando in diverse serie pittoriche. È un lavoro molto lungo.
Giorni fa mi è riuscito per caso un dipinto che sembra marmo, potrebbe essere uno spunto per una serie poetica su fantastici marmi recuperati da altri pianeti del sistema solare.
Puoi parlarmi del tuo studio?
Negli anni ottanta il mio studio era parte di una discoteca di famiglia, e i miei genitori mi portavano là spesso.
Con altri bambini giocavamo a Un due Tre Stella e a Strega Comanda Colori tra colpi di strobi e luci psichedeliche.
Sto evidentemente ancora esplorando quelle atmosfere, e pare che abbia cominciato a lavorare là molto presto.
Cosa ti eccita di più del tuo fare arte?
Essere ispirato, è come essere in uno stato di grazia.
Fare arte può portare all’Illuminazione cosi come ogni altra religione o pratica di intenti spirituali.
Come trascorri il tuo tempo quando non lavori?
Sto con i miei gatti, leggo e faccio molta meditazione, è da li che cominciano le mie pitture.
I miei sfondi scuri sono tratti dalla tonalità del buio che si vede ad occhi chiusi, il riverbero del rosso è la percezione del sangue sulle palpebre, e poi seguono tutti quei fenomeni ottici e percezioni cromatiche che certe volte – grazie alla mia conoscenza sul colore – sembrano in technicolor.
Cosa ti appassiona?
Vivre sa vie!
Qual’è il più grande desiderio?
Ne esprimo tre.
Avere i mezzi e abbastanza supporto da poter permettermi di realizzare opere di portata museale. Ma questa è più una necessità.
Vorrei assistere e partecipare a una rivoluzione, una fresca fioritura intellettuale di massa che determini un importante svolta storica… ci vorrebbe un serio impegno da parte delle istituzioni culturali.
Terzo, desidero davvero la pace nel mondo.
Puoi dirmi il libro, il disco, il film e il piatto preferito?
Olio d’oliva e pane di frumento, sapori antichi!
L’asino d’Oro di Apuleio, ma i libri più importanti che ho letto sono Alchimia e Psicologia di Jung, e L’Ombra delle Idee di Giordano Bruno, mi hanno aiutato a capire dei processi creativi che erano già in corso.
Film, Il Casanova di Fellini, ogni fotogramma è un’allucinazione pittorica.
Il disco non riesco a sceglierlo, ci sono alcuni che sono dei miracoli… ma ne approfitto per citare e ringraziare il Maestro Battiato, che “…mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro all’imbrunire…”