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Dimitri Agnello

Puoi parlarmi un po’ di te?

Sono nato nel 1995 a Carrara e faccio il pittore. Vivo e lavoro a Palermo.

Come e quando ti sei avvicinato/a all’arte?

I miei primi contatti con le arti visive sono stati piuttosto naturali, in quanto figlio di uno scultore. Da piccolo assistevo mio padre mangiando la creta, poi è cominciato il tempo della repulsione e da lì probabilmente l’avvicinamento ad un mondo per me meno manifesto, come la pittura. Oggi, più che mai, sento che i momenti passati tra la polvere del gesso e la creta abbiano ricoperto un ruolo importante nella mia formazione.

Quali sono gli artisti cui guardi? E perchè?

In questo periodo mi piace guardare i lavori di Man, Muresan, Meade, R.H. Quaytman, Roccasalva, Wellmann, Giovanelli e tanti altri.

Penso che il principio che scandisce la direzione del mio sguardo venga espresso nel modo più esaustivo dalle parole di Didi-Huberman in La coscienza accidentale. Huberman, parlando del paradosso del fasmide, afferma che soltanto ciò che è capace di dissimularsi può apparire. Le cose di cui cogliamo subito l’aspetto, quelle che somigliano, non appaiono mai. Come nei vivari: le scenografie vegetali e i cartelli ci suggeriscono la presenza di un animale, ma a prima vista sembrano vuoti. Bisogna battere con le dita sui vetri per vedere muovere e per realizzare che tutte quelle foglie secche, che avevamo visto sin dall’inizio, fossero dei fasmidi. Dunque la piccola scenografia vegetale è essa stessa l’animale che crediamo nascosto. Penso che avvenga qualcosa di simile quando ci troviamo di fronte ad un’opera d’arte. Non mi interessa l’enigma mimetico in sé, ma la sensazione di smarrimento.

Per il resto attingo da dei codici storici chiari, esplorandoli come i luoghi di un sogno, in ordine confuso e sparso, proiettandoli su un unico piano liquido. Rimango però dell’idea che quella del guardare sia un’attività così vasta e complessa da rendere riduttivo e superficiale qualsiasi elenco. Bisogna forse arrendersi all’idea di non poter essere sempre coscienti e lucidi riguardo ai complessi meccanismi che influenzano lo sguardo ed il gusto.

Puoi parlarmi della tua ricerca artistica?

Il rischio di definire il proprio lavoro è quello di entrare nel solito sistema preimpostato di parole e discorsi che rendono tutto il resto ridondante, ma questo atteggiamento potrebbe  rivelarsi altrettanto retorico. Virginia Woolf diceva che solo con la morte di uno scrittore le parole potranno venir disinfettate dagli inconvenienti di un corpo vivente.

Comunque, guardo ed opero in una regione dove la rappresentazione si manifesta non per quello che è, ma per quello che potrebbe essere; dove il nostro tentativo di identificare una qualsiasi logica sembra fallire. Sono più interessato negli interstizi, nelle zone d’ombra della simulazione. Mi affascinano molto i negativi (fotografici, delle stampe xilografiche, dei corpi), perché ci rivelano una zona grigia dove la luce, la prospettiva, la narrazione sembrano collassare, cessando di seguire le forze fisiche del nostro mondo. Sono degli involucri, dove le cose si manifestano per tracce, segni, in una sorta di inframondo, dove tutto è in potenza. La superficie pittorica  diventa un nuovo spazio di possibilità.

Qual è il materiale preferito? E perchè?

Ho sempre lavorato ad olio, di cui mi interessano i tempi lunghi di essiccazione e la reversibilità.

Quanto è importante il processo?

Molto. Diciamo che non mi rispecchio molto nella figura del pittore che si siede di fronte ad una tela bianca e dipinge. Solitamente impiego molto tempo nella ricerca e nella trasmutazione dell’immagine, che elaboro in diversi modi per poi fraintenderla e il più delle volte non ne vengo a capo. Alla fine il processo è tutto ciò che si frappone tra l’intenzione e il risultato.

A cosa stai lavorando adesso?

Sto lavorando a diverse carte che suggeriscono il concetto del doppio, con delle ambiguità fisiche e prospettiche. Sto cercando di approcciarmi ad una sorta di cromofobia che mi segue da molto tempo.

Puoi parlarmi del tuo studio?

Lavoro in un interrato tendenzialmente umido e con poca luce che si trova nello stesso palazzo dove vivo. E’ il luogo dove passo buona parte del mio tempo. A parte i rumori della città, mi ci trovo bene.  

Cosa ti eccita di più del tuo fare arte?

Solitamente mi entusiasma una nuova intuizione. Ma dai grandi entusiasmi nascono anche le più grandi frustrazioni… Fa parte del gioco.

Come trascorri il tuo tempo quando non lavori?

Il lavoro mi segue anche fuori dalle pareti dello studio, altera il mio modo di vivere, influenza i film che vedo, le letture, come mangio. E’ una condizione costante. Comunque quando non dipingo, vedo gli amici, leggo, guardo film e documentari, il lavoro di altri. Tutto è capillare.

Cosa ti appassiona?

I manuali e i documentari, di ogni tipo.

Qual’è il più grande desiderio?

E’ un periodo in cui non riesco bene a distinguere tra i desideri e le necessità. Posso dire che se immagino il mio futuro, lo immagino lavorando in uno studio, preferibilmente in campagna.

Puoi dirmi il libro, il disco, il film e il piatto preferito?

Dipende molto dai periodi. Per ora leggo con entusiasmo La prospettiva rovesciata di Pavel Florenskij, ascolto Ojerum – Under Gange, ho rivisto The Willow Tree di Majid Majidi. Se fosse inverno direi un arrosto alle erbe, ma al momento della pasta ai frutti di mare.

Dimitri Agnello  Opere / Arworks 

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